Intervista a Luigi Pagano Vice Capo Vicario del DAP

set

11

2013
Intervista a Luigi Pagano Vice Capo Vicario del DAP
Intervista a Luigi Pagano Vice Capo Vicario del DAP

Iniziai a lavorare negli istituti del Sud, a Pianosa ,Asinara ed Alghero, poi arrivai a Milano dove per 16 anni sono stato direttore del carcere di S. Vittore. Per i seguenti otto anni ho retto il provveditorato regionale ed infine, da circa un anno, sono arrivato qui nella Capitale come vice capo del DAP.”Dottor Pagano, vista la sua grande esperienza, sembra quasi scontato chiederle un parere ed una “fotografia” sull’attuale sistema carcerario italiano  “Beh, se si va a leggere la stampa, si vedono ovviamente situazioni di grossa sofferenza, inutile negarlo, talvolta si arriva anche a parlare di suicidi. In realtà però, intravedo anche una certa vivacità, che è la leva assolutamente indispensabile per migliorare le condizioni. Traduco: se non vi fosse un così pesante sovraffollamento (quasi 15000 detenuti di troppo secondo le ultime stime), con le capacità che hanno i nostri operatori, credo che veramente staremmo a parlare di un carcere a dimensione d’uomo, dove la dignità del carcerato, in accordo con l’articolo 27, sarebbe veramente rispettata. In più, seguendo sempre quanto legiferato con il suddetto articolo, le possibilità di reinserimento nella società civile aumenterebbero enormemente, diminuendo criminalità e spese pubbliche di conseguenza. Una situazione di luci ed ombre insomma, con le prime dovute in gran parte all’egregio lavoro svolto dal nostro personale, mentre per le seconde c’è una forte colpa della società circostante.”  E’ quindi la strada della rieducazione, il percorso da battere più celermente possibile?  “Il reinserimento è quello che i criminologi chiamano “prevenzione speciale”. Intervengo sul reo ed ottengo un abbassamento della recidività, abbasso i fondi destinati alla giustizia e , per ogni persona pienamente recuperata, possiamo parlare di un pericolo in meno. Agli occhi della società civile però, molto spesso questo percorso viene visto come un recupero per la criminalità, visto che allo stato attuale circa l’84% delle persone scarcerate finisce per delinquere nuovamente.”  Esistono in Italia esempi di carceri modello cui trarre giovamento per l’intero sistema?  “Io personalmente non credo alle carceri modello. Sono un utopista, il miglior carcere è quello che non c’è. Stiamo ovviamente parlando di una situazione legittima per garantire la legalità ma è comunque innaturale per l’uomo. Ad ogni modo, le strutture di Bollate, Trento e Rieti per esempio sono istituti all’avanguardia, questo anche perché hanno i numeri giusti, e non soffrono di una situazione di sovraffollamento. Con queste premesse, anche il clima che si viene a creare tra operatori e detenuti è quello giusto, si lavora infatti con una grossa empatia reciproca.”  Come abbiamo detto precedentemente, Lei ha avuto una lunga esperienza all’interno del sistema carcerario. Come è cambiata la situazione nel corso di questi 30 anni?  “Mah, guardi il problema del sovraffollamento è sempre stato un tarlo importante purtroppo. Calcoli che mediamente ogni 5 anni c’è stata un’amnistia volta proprio a migliorare le suddette condizioni di disagio.  Negli ultimi anni poi, l’amnistia e l’indulto sono state le valvole di sfogo per abbassare il numero di detenuti nelle strutture. Nel tempo comunque, è cambiata la qualità del detenuto. Io ho cominciato appena un anno dopo il rapimento di Moro, le Brigate Rosse mettevano a ferro e fuoco il Paese, ho vissuto intensamente l’uccisione del Generale Dalla Chiesa, al Nord spadroneggiava Vallanzasca. Oggi invece ci troviamo di fronte ad una criminalità più povera, fatta essenzialmente da tossicodipendenti e stranieri. Questi potrebbero avere una pena diversa, più costruttiva, bypassando in toto il carcere. Per fare questo però, ci devono essere le strutture, le comunità adatte per il loro recupero. E’ impensabile credere di poter risolvere una piaga come lo sbarco degli immigrati, aprendo loro le porte del carcere. E’ una falsa risposta o comunque non quella idonea.”  La costruzione di nuove carceri quindi non risolverebbe in toto il problema giusto?  “Aiuterebbe, è ovvio, ma non è questa la via per la soluzione del problema.  Andrebbe fatto uno sforzo per il miglioramento delle misure alternative, più che per le carceri vere e proprie. In secondo luogo va rivisto anche il sistema di progettazione delle strutture. Ormai ci siamo assuefatti ad avere carceri totalmente indifferenziate. A San Vittore ad esempio, appena arrivai, apprezzai in primis la struttura, un carcere pan ottico costruito con una filosofia ben ricercata dietro. Fu costruito così perché era ben chiara la pena che si voleva far scontare, ed era quello il modo migliore per trascorrere la detenzione. Oggi le carceri purtroppo non dicono più nulla, sono solo un mero contenitore di corpi,è un aspetto fondamentale sul quale lavorare secondo me.”  Avendo lavorato in strutture ubicate in tutta Italia, ha colto qualche differenza tra il detenuto del Nord e quello del Sud per esempio?  “La differenza è evidente, o lo è almeno per me che sono del Sud.  Storicamente nel Meridione devi fare i conti con la mafia, con la camorra, più in generale con associazioni volte a delinquere. Il tuo ruolo ha quindi evidentemente una valenza diversa.”  Recentemente un sondaggio ha mostrato come la polizia penitenziaria sia il corpo che ispira meno fiducia agli occhi dell’opinione pubblica. Cosa pensa di poter fare per promuovere la vostra immagine?  “Credo purtroppo che noi scontiamo il fatto che il carcere lo si può al massimo considerare come un luogo utile, ma non lo puoi amare di certo. Puoi amare i Carabinieri e la Polizia, ma non si riesce a capire fino in fondo che il carcere è un servizio sociale.  Il concetto che balza agli occhi dell’opinione pubblica è palesemente  sbagliato: gli altri Corpi di Stato prendono il malvivente e catturano e voi della Penitenziaria lo rilasciate dopo avergli fatto scontare una pena, avvertita molto spesso come troppo leggera.  Inoltre credo che la gente sia ancora ferma al concetto di secondino, cosa che oramai abbiamo superato da tempo: adesso gli operatori sono vere e proprie figure professionali, degli operatori sociale. Non siamo più le persone che aprono e chiudono la cella, adesso ci affanniamo per stabilire contatti emotivi, creando un’ empatia. Parliamoci chiaro: se una situazione di forte sovraffollamento come quella italiana non è ancora esplosa, di chi sono i meriti? Sono assolutamente convinto che siamo la faccia della legalità all’interno delle carceri. Non abbiamo la linearità dei carabinieri, è evidente,e magari agli occhi dell’opinione pubblica queste cose le paghi, ma devo sottolineare che noi affrontiamo tutti i giorni questi problemi in profondità.”  Cosa riserverà secondo Lei il futuro in termini di Leggi e decreti volti a migliorare la qualità delle carceri?  “Mah, ovviamente non lo posso affermare con certezza, ma gli ultimi ministri, in particolare Alfano con il suo piano carceri, la Severino con il decreto porte girevoli e l’ultimo decreto ministeriale fatto dalla Cancellieri, stanno facendo veramente molto, il che mi lascia ben sperare.  In particolare sono assolutamente d’accordo con la costituzione di pene alternative per i detenuti che hanno commesso reati più “leggeri”. A ben vedere però, il merito principale è dell’Europa, che ci ha costretto a rivalutare il nostro sistema carcerario e a risolvere le sue contraddizioni.  Insomma ci ha costretto ad imboccare una strada che sembra essere quella giusta finalmente. Dobbiamo necessariamente tornare a Strasburgo con delle proposte serie, stiamo lavorando per questo, dobbiamo essere credibili agli occhi dell’Unione europea. Bisogna capire che investire nelle carceri, ha un ritorno evidente, anche economico come dimostrano gli esempi di Rieti e Bollate. Il carcere è un problema, non la risoluzione di altri. So che sembra uno slogan ma è la realtà.”  Ha la sensazione che i mass media mettano in cattiva luce il vostro lavoro, mettendo in risalto i casi nei quali magari la macchina giudiziaria non è molto efficiente?  “E’ il loro lavoro, lo fanno anche sullo sport e in altri campi. Dai alla gente ciò che vuole avere, e ne avrai sicuramente un ritorno. Ha una sua influenza, ovvio, ma non è fondamentale. D’ altra parte la società vuole che il carcere sia duro, che sia uno strumento di prevenzione, pretende che le strutture siano brutte ed austere. Poi però vuole pure che sia un luogo rieducativo, di reinserimento. Il carcere fallisce all’84%, ok, ma allora ripensiamolo. Lo vogliamo riformare dal punto di vista dell’efficienza o dell’efficacia? Bisogna risolvere questi enigmi prima di tutto. Le strutture detentive ben organizzate hanno sicuramente un risultato migliore del nostro, proprio perché l’idea di base è diversa, nasce da un concetto diverso.”  Chiudo questa chiacchierata con una curiosità a proposito dei lavori socialmente utili. In Italia molto spesso ci si rifà al mito americano, dove i detenuti vengono utilizzati per svolgere lavori di pulizia delle strade o delle città. E’ un’ipotesi impraticabile qua da noi?  “Attenzione c’è da fare una distinzione importante. In America hanno addirittura privatizzato le carceri,con il concreto rischio che il detenuto diventi solo e semplicemente forza lavoro. Siamo in presenza di una condizione molto simile ai lavori forzati, credo che i detenuti inoltre non siano neanche pagati. Investendo nelle carceri, le grandi aziende hanno cosi avuto libero accesso ad una manodopera praticamente a costo 0, tralasciando ovviamente tutte le velleità di reinserimento o rieducazione del detenuto.  Da noi, grazie all’articolo 27, tutto questo semplicemente non è possibile.  Il fatto che adesso anche da loro stanno tornando all’antico, mi fa credere che una volta tanto eravamo noi dalla parte della ragione. Nel nostro piccolo poi, abbiamo avuto anche noi delle belle esperienze. Una su tutte, l’aiuto che i nostri detenuti hanno dato durante la brutta parentesi del terremoto in Emilia, ma anche il lavoro che viene svolto di estate come pulizia delle spiagge. Insomma, anche noi stiamo muovendo i primi timidi passi verso una nuova cultura carceraria.”